lunedì 30 gennaio 2012

PARLIAMO DI HAIKU

Parliamo di haiku, componimento breve di 5-7-5 sillabe sviluppatosi in Giappone. Evito per ragioni di spazio la tecnica, non considero il rapporto (fondamentale) con la natura, i riferimenti stagionali.

Partiamo piuttosto dai testi, dall’esperienza testuale. Ecco allora Basho, il più grande autore di haiku, monaco buddista vissuto nel XVII secolo:

Se guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso la siepe
!


Questo è invece Alfred Tennyson, uno dei più famosi poeti inglesi (1809-1892):

Fiore che spunti dal muro screpolato,
io ti colgo dalla fessura; -
ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano,
piccolo fiore, - ma se potrò capire
ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,
saprò che cosa sono Dio e l’uomo.



Bella e grande differenza vero? Basho non tocca il fiore, si limita a guardarlo “attentamente”. Per lui e per gli autori di haiku conoscere il fiore è diventare il fiore, vedere nella natura delle cose più ancora che osservare, guardare.
Tennyson invece? Coglie il fiore, lo strappa, deve possederne “la radice e tutto”. E il fiore diventa un piccolo strumento del proprio egocentrismo, una vittima dell’affermazione della propria individualità. Il risultato finale non è l’oggetto (ormai morto senza radici) ma l’ansia del capire, del giudicare, del penetrare, non dell’apprendere, del sospendere il giudizio, tanto meno del vedere, del semplice essere presente.

Difficile capire e accettare, per noi occidentali poeti e non, che un haiku: “nasce dal silenzio, brilla per un attimo e poi torna nel suo silenzio”.
Difficile capire (e soprattutto cercare di praticare) la regola prima di scrittura di un haiku che è la seguente: “il soggetto per poter cogliere e accogliere la genuità dell’evento si rende vuoto di ogni intenzionalità sia intellettuale che sentimentale, al punto di rendersi equivalente all’evento”.

Un esempio? Ecco il famoso haiku di Basho:

Vecchio stagno.

Tonfo di una rana
suono d’acqua
.

Chi scrive non c’è: non c’è come voce che descrive o commenta un evento. C’è solo e su tutto il vuoto come assenza di un soggetto. Il poeta si limita a registrare ciò che ha visto e in questo utilizza la sua mente come uno specchio pulito, come una superficie vuota.
Prima di parlare di come intendere correttamente il termine “vuoto”, chiediamoci: qual è il centro della poesia, quale dei tre soggetti descritti è predominante? Nessuno, non c’è soggetto “forte”, ciascuno non ha senso senza l’altro: ciò che conta è il loro rapporto di interdipendenza.

Il poeta, Basho in questo caso, ha messo da parte le proprie capacità di interpretazione. La sua mente e cio che lo circondava al momento dell'atto dello scrivere erano non entità contrapposte, ma un'unica entità di soggetto-oggetto.

Per ottenere questo ha dovuto eliminare la sostanzialità e permanenza del proprio Io, praticando il vuoto della mente (wu-shin).


Ecco allora la chiave per comporre e comprende un haiku: il vuoto.

Un haiku nasce grazie al vuoto, meglio dal vuoto, ma anche apre al vuoto, ovverosia alla libertà di molte “finitezze”, al dispiegarsi di molte determinazioni. Il vuoto, nella filosofia buddista e in particolare nella pratica degli haiku, va inteso come condizione delle infinite possibilità di altre parole. (Giangiorgio Pasqualotto, “Estetica del vuoto”, Marsilio, 1992)

L'haiku è il risultato di una meditazione interiore: è il punto d'arrivo di un cammino non l'inizio. Non è, come per la lirica occidentale, l'affermazione di un "io poetico", bensì la sua voluta dissoluzione.

Lo spiega benissimo James Hillman quando ne "Il piacere di pensare" ci spiega che negli haiku non si parla di un "me" ma:


di un albero di ciliego e di un bocciolo che cade. O parlano dell'inverno che si posa. O parlano dell'acqua che in questo momento  scorre limpida. E nell'istante in cui leggiamo "l'acqua scorre limpida", ritroviamo l'immagine di una esperienza che l'anima conosce.

Semplice? Assolutamente no, tremendamente difficile e complicato da capire e soprattutto da praticare. Hillman ci spiega in un suo altro scritto la differenza tra percezione sensoriale accidentale come l'intendiamo oggi (derivante dall’empirismo inglese) e la percezione sensoriale antica (dei greci).

La sensazione in greco è aisthesis la cui radice rimanda a “introiettare” e “inspirare”, trattenere il fiato dalla meraviglia che è la risposta estetica primaria.
E allora “accogliere” significa prendere a cuore, inspirare il mondo. “Non soltanto io che mi confesso riversando la mia anima, ma anche io che ascolto, nelle cose che parlano, la confessione dell’anima mundi”.

Restituire l’anima al mondo significa conoscere le cose istaurando con loro un rapporto intimo, carnale. Cominciando dalla rivoluzione aggettivale, evitando la descrizione del proprio vissuto, dei propri sentimenti, su nozioni che riguardando il nostro “io” sempre più grande e fagocitante.

Io rallento e mi fermo qui.

Nessun commento:

Posta un commento