lunedì 6 giugno 2011

Lettera a un liberismo mai nato

Caro Nicola,

ho appena finito di leggere “L'economia giusta” di Edmondo Berselli (Einaudi, 2010) che mi ha confermato nelle riflessioni e convinzioni che, come ti ho anticipato, stavo maturando alla luce della recente attualità.

IL CONTESTO

Parto quindi dall'attualità e, in particolare, dai 2 referendum sull'acqua. Materia tecnica e complessa sulla quale occorreva più che informazioni una cultura economica nonché politica e civica che l'Italia non ha. Questo è il primo dei punti fermi del mio ragionamento. I mezzi di informazione attuali non consentono il formarsi, tramite l'approfondimento e il confronto di idee, di una conoscenza specifica delle questioni. Lo scontro politico permanente e armato impedisce di affrontare i problemi nel merito e senza pensare a tornaconti elettorali (ci ritorno).

Dunque la forma mentis del cittadino italiano medio in questo scorcio di secolo, sviluppa una volontà e capacità di informarsi conseguente ai modelli informativi e politici di riferimento. Quindi genericità di fondo, concetti filosofico-religiosi più che economici, giudizi a prescindere dettati dall'essere contro e schierati.

E' un sistema impressionante e contro il quale la battaglia del ragionamento attivo è persa in partenza. Televisioni e dibattiti televisivi dove trionfano le frasi ad effetto. Dove la forza evocativa delle immagini dei servizi da studio, il far parlare le persone singole o in Piazza e il documentare situazioni di vita quotidiana scelte ad arte, è imbattibile.

E' un sistema impressionante laddove lo schieramento di maggioranza liberista (si fa per dire) si tira da parte, mentre il partito riformatore (si fa per dire) sceglie la strada dell'incasso politico dei referendum. E poco importa se il suo segretario, Bersani, era favorevole ad introdurre elementi di privatizzazioni nelle municipalizzate come gli hanno fatto giustamente notare ex ministri del governo Prodi come Franco Bassinini e Linda Lanzillotta.

Quello dei referendum è il caso forse più clamoroso in ordine di tempo di una incapacità del nostro Paese, della sua classe politica e delle sue articolazioni sociali, a diventare o provare a diventare liberista. A questo punto il mio ragionamento è semplice e, naturalmente, tiene conto di molti altri esempi. In Italia non c'è cultura e coltura per il liberismo. Soprattutto non ci sono, date le condizioni attuali, i due pre-requisiti essenziali per attuare riforme liberiste.

QUELLO CHE NON C'E'

Non c'è una amministrazione pubblica in grado di controllare l'ingresso e la gestione da parte dei privati di servizi e funzioni oggi gestite dal pubblico, e questo dal governo centrale alle articolazioni periferiche e cioè Regioni, Province e Comuni. Non esistono sistemi, strutture, metodologie e soprattutto cultura e formazione del controllo. Questo non solo perché la pubblica amministrazione è inefficiente, soprattutto perché c'è una distorta concezione di quelli che devono essere i compiti primari ed il ruolo in tempi di crisi e in una società in evoluzione di un Comune, di una Provincia e di una Regione. Discorso che se vuoi possiamo riprendere.

Parallelamente non c'è una classe politica che abbia una visione liberista e che voglia e sappia far condividere un modello liberista o meglio riformatore. Lo stesso si può e si deve dire della classe imprenditoriale. Ho pronunciato la parola riformatore e qui mi collego al libro di Berselli.

La Germania oggi alla guida dell'Europa economica e sociale lo è grazie alla sua classe politica. Nel 1976 con la legge sulla co-determinazione, in virtù della quale nelle aziende con più di 2 mila dipendenti (in Italia quante sarebbero?) i dipendenti accedevano agli organi direttivi almeno in funzione di sorveglianza.

Nel 1959, quasi vent'anni prima, i socialdemocratici dell'SPD a Bad Godesberg accettarono integralmente l'economia di mercato come scenario politico-economico di riferimento.

L'ITALIA? TRENT'ANNI DOPO

E in Italia?

“In Italia la svolta riformista avviene con TRENT'ANNI di ritardo...Anche dopo la caduta del muro di Berlino la Democrazia Cristiana rimane chiusa nel suo Todo Modo e il Partito Comunista nelle liturgie del centralismo democratico. Per osservare un cambiamento incisivo occorre aspettare lo sconvolgimento dei primi anni Novanta, che però si trascina via il sistema politico”.

Questa la storia. Da qui l'analisi di Berselli si fa provocatoria ma realistica e lucida, laddove invita a riflettere che l'Italia seguì un suo modello di economia sociale di mercato basato sugli aiuti pubblici, sulle statalizzazioni, piani di aiuto, pur con tutto quello che hanno comportato e ancora comportano sulla nostra vita oggi.

Il sistema delle clientele nell'Italia bianca e “poliarchica” e il blocco delle cooperative nelle regioni rosse hanno sostenuto l'assetto sociale ed economico durante gli anni Settanta.

UN PAESE DE-LIBERALIZZATO

Bisogna forse avere il coraggio estremo di essere realisti, di trarre le conseguenze dalla società attuale, dalla scarsa credibilità della classe politica e della classe imprenditoriale (le privatizzazioni all'italiana), dalla carenza della funzione di controllo del pubblico, dalla nostra storia recente. Quali conseguenze?

  1. Affermare e sottoscrivere un patto nazionale in cui si sancisce che l'Italia rinuncia alle liberalizzazioni, diventa un Paese de-liberalizzato.
  2. Che sceglie con convinzione la via dell'economia sociale di mercato seguendo il modello del capitalismo renano integrato con l'esperienza della cooperazione e con il concetto alto di Sussidiarietà più che con le sue attuali applicazioni terrene.
  3. La contropartita è una riforma o meglio rivoluzione della Pubblica Amministrazione con l'introduzione della contrattazione di tipo privatistico e l'introduzione della valutazione meritocratica. Obiettivo: creare una nuova generazione di dipendenti pubblici, ridefinire i ruoli degli enti pubblici.
  4. Mettere al centro della politica italiana i laboratori virtuosi delle grandi città, delle Regioni e delle Province che accettano di tradurre in pratiche virtuose il nuovo modello.
  5. Ricostruire le nuove classi politiche dall'esperienza e dagli uomini dei Comuni, delle Province e delle Regioni virtuose.

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