sabato 27 febbraio 2016

L'ANIMA DELLA CITTA'


Angelini e Pavia


La prima dichiarazione d’amore di Angelini a Pavia viene “fatta” nel 1925. Nel volume “Commenti alla cose” compare il Discorso con la mia città. Ed è un discorso destinato a prolungarsi negli anni, a trasformarsi in un dialogo che dalle grandi zoomate si restringe ai primi, anzi primissimi piani: dall’impianto fotografico della città, alle vie, ai tetti, ai sassi, ai camini.


Nel Discorso con la mia città Angelini comincia a pensare in modo armonioso Pavia «che vuoi dire conoscerla intimamente ». È una scoperta dell’insieme che parte dalla forma archeologica del castrum, del cardo e del decumano. È una sorta di risalita alle origini, a quella che potremmo definire l’editio princeps della città, da cui poi raccogliere e collazionarne le varianti.


La scoperta, diremmo, dell’insieme, m’aiuta a ritrovare a uno a uno tutti i particolari e ogni via o chiassòlo e scuro, ogni inferriata o portale o mozzicon di torre mi diventa un buon filo per ritrovare l’anima più vera, e la storia fino al suo nascimento lontano.



Stradario pavese” (uscito nel volume Carta, penna e calamaio, 1944) può essere considerato un « copione cinematografico in fieri ». Con questi scritti Angelini gira il suo film su Pavia. Protagoniste diventano le strade che «arrivano dalla campagna, ancora illuminate di rogge e prati. Alle porte si trasformano, timide; si mettono sul bello... » e, una volta arrivate in centro, diventano:


tranquille, riposate, fatte apposta per scendervi avfar quattro passi e per creare quell’utile allacciamento di relazioni affabili che è condizione di vita di qualunque città.


Dalle strade l’occhio cinematografico di Angelini compie una serie di primissimi piani. Ecco allora i sassi di Pavia tra i quali nasce l’erba che Angelini non capi­ sce perché debba essere strappata. Prima di descrivere la poesia di quei sassi, Angelini contrappone alla frenesia tumultuosa e indiavolata (già allora!) di Milano la condizione vincente di “provincia” di Pavia;



Parlandone come dall’alto, i milanesi la chiamano provincia". Non so cosa vogliano dire; se non, forse, una condizione di vita modesta ma certo onesta, che è la sua più vera aristocrazia, fatta di silenzio e di pudore nei confronti con una città tumultuosa e indemoniata come la loro è. Città di tono tenue, a Pavia si ritrovano ancora le virtù screditate: ritegno, discrezione, modestia. E ce ne vantiamo.



Ma poi protagonisti diventano i sassi:


Ma bisogna vederli, dopo la pioggia, i sassi di Pavia; lustri, sensibili, teneri, che terni quasi a calcarli. Vivi, come se l’acqua li avesse svegliati lurnachelle mèssesi tutt’insieine a camminare. Vieni a vederli in piazza Borrorneo e nelle stradine d’intorno che paion già campagna: taluni d’un nero frusciante come dossi d’anguille; altri di quarzo argenteo scattanti fuoco sotto lo zoccolo dei cavalli; altri d’un rosso che fischia; o, verdissimi come malachiti, vibrano appena sfiorati dal bacio d’una rondine.



Poi l’occhio si alza da terra ed ecco inquadrati i bei cancelli in ferro battuto

«che scopri in un’improvvisa svoltata, quasi l’apparire cordiale d’una rama di mandorlo in fiore». Più in alto ancora ed ecco i camini, segno di una città « che ha ancora tanti focolari, tanta umanità di vita ». E qui, con la visione, nasce la poesia:


Se poi sui tegoli lavagna appare un gatto, tutto il tetto s’arrùffa e i camini si muovono, come dentro un’improvvisa opera stregonesca; e pensi ad anime de/purgatorio che salgono e scendono per la cappa fuligginosa e contorta. Allora capisci anche meglio la funzione che hanno, lì accanto, gli abbaini, i misteriosi castelli delle civette, le dame della notte.




L’anima nascosta di Pavia ci viene svelata nello scritto Pavia, dolce provincia presente in “Frammenti del sabato”:


In complesso, Pavia è città che aiuta a salvar l’anima. Fuori d’ogni arcadia, si sente che, raccolta tra il Ticino e il Naviglio ‑ cinture di luce che l’allegrano Pavia, ha l’ufficio di custodire la modestia del vivere, l’umiltà, il pudore.

domenica 2 agosto 2015

Lettera d'amore


Carissima,

era molto piú intenso, ricordi, scambiarsi amore coi versi.

Le tue onde, la tua marea mi allagano, abbattono sponde e io di nuovo rinasco, fluisco, capisco che sto per sbocciare. E, siano fiori o grano, li metterò nella tua mano.

Che buffo adesso volgere in prosa quelle parole innamorate, rendere serio il desiderio, dare ordine e allineare quel ritmo vitale. Eliminare gli a capo, distendere il tutto come lenzuola dopo il bucato. Sarà che adesso siamo più assennati e inquadrati? E' certo, ma io mi preferisco quello di allora: più aperto e scoperto. Spossato e spaesato. Però no, non rimpiango e non rinvango. Mi ascolto, riaccordo pensieri di ieri, riascolto il loro suono per capire chi sono.

Tu invece cosa hai fatto in tutti questi anni? A chi hai indirizzato le tue labbra dorate? Alla fine hai deciso di scorrere tra due sponde o di giocare libera con le onde? Sì lo so, non ha senso chiederti tutto questo, voler entrare nel tuo privato come se niente fosse stato.

E' che stasera sono solo, solissimo, nuvoloso, iroso. Penso, mi commuovo, mi smuovo, non mi ritrovo. Non dormo e non mordo, mi assento, mi scontento sono a pezzi dispersi, inversi, slegati, irrelati. So che domani non mi attendono miracoli ma solo nuovi e vecchi ostacoli,blocchi di parole usate, svuotate, sbucciate, sbeffeggiate. Ma farò buon viso a cattivo gioco.


Per questo ho deciso stasera di scriverti, per dirti che mi manchi. Mi manca una amica tenera, notturna, solare, vera, vela che mi spinga al largo, che mi soffi vita, che mi restituisca quella follia.
Mi manchi tu, mia amata cara e unica amica poesia

sabato 28 settembre 2013

"BEN TORNATO A CASA"

Ad un seminario su narrazione e viaggio tenuto da Giuseppe Cederna (grandissima persona) era richiesto ai partecipanti uno scritto su un luogo del cuore o dell'anima. La cosa più bella è stata il pensarci, l'emozione e l'intensità del pre-testo, la disposizione che precede la scrittura, la felicità nel rincorrere ricordi.
Tutto quanto precede l'irrompere dell'
io narrativo.

E' diventato un rituale che, ogni anno, cerco di onorare. Un pellegrinaggio dell'anima ma anche del corpo. Perchè la fatica aumenta e si fa ogni volta sempre più sentire.

Valtellina e più precisamente Aprica, luogo dell'adolescenza. Ma stranamente - e ci penso solo adesso - in quegli anni Settanta gli spostamenti avvenivano in gruppo e solo in moto, raramente a piedi a dispetto delle forze e delle energie giovanili allora in esubero.


Mi lascio presto alle spalle il paese e le sue brutture architettoniche ben rappresentate dal condominio a sei piani chiamato “Panettone”. Il primo tratto è subito salita che porta ai pistoni da sci. Percorso conosciuto e quindi trafficato, anche da orribili fuoristrada. Ma sia benedetto nei secoli Steve Jobs per la creazione di quella meraviglia di nome Ipod!

La musica che mi accompagna è invariabilmente e volutamente sempre la stessa: Claudio Rocchi e i suoi Voli magici n.1 e n.2 (ma c'è anche un n.3). Perchè collega l'adolescenza a quello che sono oggi. Perchè mi fa capire che quello che sono oggi è anche quello che sono stato ieri. Diciassettenne mi prendevano in giro del mio amore per Claudio. Che è mancato pochi mesi fa. Sarà forse un caso: ma quest'anno ho saltato dopo anni il mio rituale.

Così mi trovo a salire incurante degli altri e dei loro commenti allorchè, preso dai testi, canto senza remore: “
Vivi la vita vivendo la vita, usa la mente tenendola vuota”.

Usa la mente tenendola vuota” è quello che mi succede quando, finiti i campi da sci dell'impianto Baradello, imbocco il mitico sentiero A3 segnato in rosso. E dai 1250 comincio a salire per raggiungere l'agognata Malga Premalt e la Piana dei Galli a 2.029 metri.

Sono lì, solo, con la mia fatica. Dapprima mi viene sempre un pensiero politico o ideologico di malcelata soddisfazione: oggi alla vostra facciazza io sto consumando solo la suola delle mie scarpe e l'acqua della fontana che è gratis. Dopo la lettura di “Walden ovvero vita nei boschi” ho introdotto una preghiera di ringraziamento a Henry David Thoreau.

Incrocio i due sentieri che portano i nomi del beato Pier Giorgio Frassati e dello scienziato Camillo Golgi. La riflessione è che grandezza d'animo e profondità di pensiero sono spesso prerogativa di grandi camminatori. Scaccio il pensiero che mi vorrebbe portare a trovare un riscontro con gli intellettuali e i politici attuali.
Anche e soprattutto perchè la salita è sempre più impegnativa e la mente si fa davvero vuota. Sto con il respiro e con la fatica delle gambe. Sto con il pensare a quel pianoro che so che prima o poi ci sarà per portarmi un po' di sollievo, ma il vigliacco non si palesa. Sto con me che sto bene, ancora Claudio. A volte ho provato a mettere in pratica la camminata meditata del maestro zen Thích Nhất Hạnh, ma in montagna è impossibile.
Ma sono immerso in un bosco di pini e il silenzio è totale. Il cielo è scomparso, oscurato da cupole verdi. Per terra un manto di aghi e il cammino diventa leggero, soffice. Mi sembra di regalare carezze alla terra. Perchè cammino senza offenderla, senza considerarla un mezzo per.

L'arrivo alla Malga Premalt coincide con la comparsa dell'azzurro di un cielo di solito di fine agosto o inizio settembre. Non è solo il cielo ma anche un orizzonte che mi riaccoglie. “Entrare in corrispondenza con l'orizzonte” è un verso di Pasternack che ho trovato citato in uno scritto di una straordinaria poetessa-meditante Chandra Candiani.


Comincia finalmente la discesa che mi porta nella Valle di Campovecchio. Ogni volta l'arrivo è come una epifania. Dopo il rifugio Cai dove mi fermo a mangiare un panino, mi si apre una valle in piano con poche case-alpeggio di pietra, pascoli e un torrente che scorre a lato. E le montagne che si stagliano davanti come uno svelamento nella loro eterna e meditante bellezza.

M fermo, mi tolgo scarponi e calze e mi dico:
“Bentornato a casa”.

giovedì 28 febbraio 2013

PASSAGGI DI TEMPO


Ritrovo su un vecchio quaderno poesie giovanili, tracce e passaggi di tempo. Versi come "mi adagio nell'orma di una giornata buona" e "Tra il dire e il fare il saggio orientale /oggi è ció che deve essere".
Così come allora per capire, forse non resta che farsi visitare dalla poesia.
 


Non è la vita che fugge
che non lascia e disperde le tracce,
come quando leggero cammini
e non calpesti ma invii
carezze alla terra.

No, è invece la vita che resta e persiste
in un'orma segnata, schiacciata,
passaggio obbligato senza via di fuga,
ruga del tempo, traccia pesante
impronta che conta.

Non più tenui sfrigolii di giovani passi leggeri:
"Tra il dire e il fare il saggio orientale
oggi è ció che deve essere".
Invece è traccia reale, presenza costante
di ciò che è umana esistenza
peso e fatica che schiaccia
misura esatta di stare e restare
non piú adagiato
"nell'orma di una giornata buona"

ma pressato, confinato, costretto
in una traccia di marcia forzata.
E per di piú di sola andata.





domenica 24 febbraio 2013

L'ARTE DELLA SCRITTURA


Lu Ji nasce nel 261, poco dopo la fine della Grecia ellenistica. Condottiero militare combatte per l'Imperatore ma viene sconfitto. Per dieci anni si ritira nella interiorità a studiare e meditare. Riprende a combattere, viene sconfitto e condannato a morte.
Nella storia della cultura cinese Lu Ji occupa una posizione analoga a quella di Aristotele.

La sua opera più nota è “Wen Fu”. In italiano “L'arte della scrittura”. Sedici paragrafi in versi ritmati: dal “Primo impulso”, a “Scegliere le parole”, alla “Giusta forma”, a “Ispirazione”.

“Primo impulso”. Tre azioni prioritarie, soprattutto nella loro successione: osservare, sospirare, conoscere.

“Osservando lo scorrere delle quattro stagioni
sospiriamo;
scorgendo il legame intimo tra le cose
conosciamo
le innumerevoli vie del mondo”.



Parlando dell'Armonia il primo insegnamento è:

Ogni nuova composizione assume un'aria particolare,
ma solo dopo molte forme e variazioni,
solo quando abbiamo appreso l'arte del sottile
”.


L'arte del sottile ritorna anche nella “Giusta forma

“Adattarsi alle occasioni quando esse si presentano;
permettere alle emozioni di essere sottili




Tra i “Cinque criteri” scelgo la “Misura”.

“Nemmeno il sentire disciplinato
conduce in alcun dove
se ad accompagnarlo non è la cura del particolare”


E trattando del “Capolavoro” questi versi con i quali misurare la nostra attualità e idea di scrittura e letteratura:

Le brillanti pietre dure
che tanto piacciono
sono comuni come fagioli nel campo.

Sebbene gli scrittori
della mia generazione
producono in abbondanza

i loro veri gioielli
non basterebbero a colmare
la piccola conca delle mie mani.


Infinito, come lo spazio, un buon lavoro
CONGIUNGE LA TERRA AL CIELO”.

mercoledì 2 gennaio 2013

Fudenji - Monastero Zen

Vicino a Trebbiano-Salsomaggiore sorge il monastero zen Fudenji, retto e fondato dal Maestro Fausto Taiten Guareschi. Ci sono stato.


La realtà più coinvolgente è la perdita della dimensione personale del tempo. Il suo passare è scandito da riti, cerimonie, momenti vuoti solo in apparenza. Ogni gesto, dal mangiare insieme al lavarsi, ti è presente e non abitudinario. Tu sei davanti a lui e lo ascolti, crei una relazione, sai quello che stai facendo.


Ritualità come mezzo per praticare una disciplina attraverso la quale far emergere e favorire il tuo ordine interiore. Lo ha spiegato bene il Maestro in una lezione. La tua postura, il tuo aspetto sono il corrispettivo tra il tuo fuori e il tuo dentro, il tuo ordine interiore è quello esteriore che assumi e manifesti.


Gli incontri che si susseguono vengono classificati come formali o semiformali e questo determina  il cerimoniale, la preparazione della stanza dove avvengono, la disposizione delle persone. Questo, insieme alle parole del Maestro, mi porta a riflettere su quanto c’è di formale, semiformale e informale nelle nostre vite. E in particolare sulla gerarchia e sul valore che diamo a questi termini. “Formale” è ormai diventato sinonimo di artificiale, falso, vuoto, controllato, di apparenza esteriore. L’ “informale” invece è il manifestarsi della autenticità, della vera natura, dell’interiorità, dell’incontrollato. E se fosse invece l’esatto contrario?


Gli incontri con il Maestro sono stati per me i più stimolanti. Ha una vastissima cultura e quando parla fa collegamenti con la propria storia di romagnolo-emiliano con padre fabbro, con la sua esperienza zen ed i suoi maestri, con i poeti che ama come Leopardi e Pascoli, con i personaggi della sua terra.
"Fatti di terra" è il titolo di uno dei suoi libri che riassume benissimo il suo pensiero: prima di tutto occorre partire e rifarsi sempre alle proprie radici e alla proprio storia. Perchè è lì che si trovano gli esempi più alti di illuminazione non cosciente, di religiosità inconsapevole.

Ha proposto l'esempio di Ettore Cervi uno dei sette fratelli uccisi che, la sera prima di essere fucilato, scrisse ai suoi: "
sempre coraggio, e tutto sarà niente". Grande pensiero e grande insegnamento. Dell' Infinito di Leopardi ha messo l'accento sul verbo "sedendo" che viene sempre sacrificato in favore di "mirando". Ma l'essere seduti in pace e quiete è la condizione prima. Ed infatti l’idillio è un inno all'attualizzazione del momento e quindi del presente attraverso i tanti "questo, questa, queste".


Un suo scritto sulla sala della Fenice dove ci si ritrova offre riflessioni sulla crisi in atto. "Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato" perchè "la crisi porta il progresso", in quanto è nella crisi "che emerge il meglio di ognuno, perchè senza crisi tutti i venti sono brezza".


Il posto è davvero splendido. Sulle colline vicino a Trebbiano-Salsomaggiore, ha una estensione molto grande fatta a balze degradanti in un bosco con torrente. Serre di coltivazione, giardini e alberi da frutto che intuisci fioriti in primavera e una cura del particolare che ti commuove, nel senso che ti muove a stare con il paesaggio, la sua bellezza e gioia. Intorno solo colline e quindi terre coltivate.
 
Ho camminato molto sia all'interno che all'esterno, riproducendo così la dualità tra il mio esserci e non esserci, tra la volontà di abbandonarmi e quella di essere sempre presente.

martedì 30 ottobre 2012

FELCE E MIRTILLO

Trovo questo scritto del 2007 in occasione del trentennale. Lo trovo una sintesi utile condotta anche su riviste di movimento che ancora possiedo.
 
Il movimento del 1977 è stato molte cose insieme, contraddittorie e spesso tra loro in conflitto. Un movimento giovanile ma soprattutto un sommovimento di opinioni consolidate, una ricchezza di linguaggi e di vissuto che oggi si fa fatica ad immaginare.


Inquadramento storico.

Tutto inizia o meglio precipita come in una soluzione chimica a lungo tenuta in provetta a partire dal 17 febbraio. Luciano Lama, allora leader autorevole della Cgil, viene contestato all’università di Roma dagli studenti: salito sul palco per impartire una lezione sul movimento operaio viene subissato da frizzi e lazzi di contestazione. “Lama o non Lama, non l’ama nessuno”. Il servizio d’ordine serio e granitico non gradisce e finisce a bastonate, mentre Lama è costretto a lasciare precipitosamente l’ateneo romano

Quell’episodio è l’inizio di una escalation di manifestazioni, leggi speciali addirittura i carrarmati a Bologna inviati dall’allora ministro dell’interno Francesco Cossiga (che oggi con il senno di poi ha fatto autocritica su quell’improvvido e spropositato provvedimento).

Il dilagare degli scontri di piazza, degli scontri a fuoco con la polizia imposti dal movimento dell’Autonomia Operaia segnano il declino del movimento: la comparsa della compagna P 38, i morti tra gli agenti ne suonano il “deprofundis”.

Eppure il movimento del 1977 è stato altro, molto altro. Non solo gli autonomi e i fautori della lotta armata decisamente in minoranza sebbene tragicamente considerati dai più come “compagni che sbagliano”. Il 1977 è stato essenzialmente il movimento delle femministe, degli indiani metropolitani, delle università occupate, delle riviste e dei collettivi, di Radio Alice, dell’ala creativa e situazionista . Ed è di questa variegata componente che si è troppo facilmente persa la memoria.


Il rovesciamento ironico

L’ironia apre spazi, scardina, mostra ciò che ormai non si può più nascondere” si legge su “Zut”, una delle tante riviste di movimento nate in quegli anni”. Sui muri delle università e delle principali città italiane, Bologna in primis, comparvero scritte fantasie che ben definiscono questo concetto. Tra le più efficaci e significative: “Sarà una risata che vi seppellirà”; “Dopo Marx Aprile”, “Potere Dromedario”, “Felce e Mirtillo”.

Il rovesciamento ironico nasceva soprattutto dalla non accettazione e riconoscimento della ufficialità di comportamenti, atteggiamenti, mentalità, ma anche linguaggi consolidati. Se le femministe riassumevano il tutto con “Compagno in piazza, fascista a letto”, i capetti della allora Federazione giovanile del Pci che con aria dottrinale prendevano le parole nelle assemblee allora permanenti per svolgere il loro compitino, venivano interrotti al grido di “scemo, scemo”.

Le certezze ideologiche, la militanza organizzata, l’apparato partitico erano i bersagli principali dell’ironia del movimento. Il tutto a ben vedere era cominciato qualche anno prima con la famosa e seguitissima rubrica delle lettere del quotidiano “Lotta Continua”. Per la prima volta compagni, militanti, lettori, mettevano in pubblico senza vergogna il proprio privato. Giorgio così confessava il proprio disagio: “A volte ci vergogniamo delle nostre gioie, delle nostre tenerezze, della nostra insicurezza, e recitiamo la parte di compagni tutti d’un pezzo”.


La controinformazione

Sulla rivista “A/traverso” uno dei teorici del movimento del 1977 e promotore di Radio Alice, Franco Berardi “Bifo”, rifletteva sulla necessità di porsi al di là dello specchio del linguaggio del potere, proprio come fa la protagonista del libro di Lewis Carroll. Come? Producendo “informazioni false che mostrino quel che il potere nasconde. Non basta denunciare le menzogne del potere, occorre denunciare e rompere anche la verità del potere. Quando il potere dice la verità e pretende che sia naturale, noi dobbiamo denunciare quel che vi è di disumano e di assurdo in questo ordine della realtà che l'ordine del discorso riproduce e riflette, e consolida. Svelare il carattere delirante del potere. Fingiamo di essere al posto del potere, parliamo con la sua voce, emettiamo segnali come se fossimo il potere, con il suo tono di voce”.

Ad una manifestazione organizzata dal PCI e dal Partito Repubblicano con la presenza di Amendola e Ugo La Malfa, due politici che allora perseguivano una politica di contenimento dei salari operai, venne distribuito un falso volantino, firmato dalla Confindustria, nel quale l’organizzazione degli imprenditori esprimeva il proprio incondizionato entusiasmo per la linea del PCI, in tutto e per tutto coerente e organica agli interessi dei datori di lavoro.

Un altro falso fu la circolazione di una direttiva firmata dall’allora ministro dell’Interno Cossiga ad uso interno delle forze dell’ordine. Una abitazione era da considerarsi un covo di sovversivi se: “ siamo rintracciabili letti sfatti oltre le ore 10 del mattino; si trovino libro del dadaismo tedesco; sia sorpreso qualcuno dormire o ascoltare i Rolling Stones in orario lavorativo”.


Radio Alice

La grande innovazione del movimento del 1977 fu l’utilizzo di mezzi di comunicazione nuovi: i video per riprendere le manifestazioni, ma soprattutto la radio. Radio Alice venne concepita a Bologna dal collettivo A/traverso nel 1975 e cominciò a trasmettere il 9 febbraio 1976. Radio Alice era gioco, creatività: “Radio Alice è un posto dove i conigli portano il panciotto e gli speakers vanno al trotto, dove non ci sono macchine ma pensieri”. “Radio Alice è una radio del movimento, è di chi si muove per cambiare le cose e se stesso e magari non trova niente di meglio che cercare di stare bene al mondo. Radio Alice è per chi è coerente e chiede l’impossibile”.

Radio Alice era soprattutto l’irrompere per la prima volta nella storia dell’informazione della diretta telefonica: i microfoni aperti sulle manifestazioni che davano consigli ai manifestanti (e per questo venne chiusa), sulle scuole occupate, ma anche i microfoni aperti sulla solitudine, sugli sballi, sulle insicurezze di una generazione che si trovava a vivere in un tempo accelerato. Una generazione alle prese “con la rabbia, la protesta ma anche con tutta la nostra debolezza e malinconia perché anche di questo è fatta la storia del comunismo”.

Una generazione convinta che “i modelli di vivere si sperimentano adesso senza aspettare il comunismo”, che la rivoluzione “si fa con le bolle di sapone”. Una generazione che viveva il proprio corpo come linguaggio, convinta che “il desiderio trasforma il quotidiano” e che “il linguaggio che ancora non ci appartiene non è quello dello scambio: il desiderio non conosce lo scambio, conosce solo il furto e il dono”.


Conclusione

Il bel libro di Enrico Franceschini, “Avevo vent’anni. Storia di un collettivo studentesco, 1977-2007”, Milano, Feltrinelli, 2007 raccoglie a distanza di trent’anni i ricordi, le esperienze, il vissuto di chi, nel 1977, faceva parte del collettivo studentesco di Giurisprudenza all’Università di Bologna. Microfoni aperti dunque ad alcuni dei protagonisti di quel movimento.

Gianfranco: “Era la politica fatta dal basso che si prendeva la rivincita sulla politica fatta dall’alto, dai leader, dai comitati, dalle commissioni”. Nena “Quegli anni ci hanno dato la libertà di pensiero, ci hanno insegnato a non accettare l’ordinarietà della vita, ad avere un approccio critico alla realtà, ad essere autonomi nei giudizi”.


Conclusione musicale

Non può che essere affidata a Claudio Lolli, autore nel 1976 di “Ho visto anche gli zingari felici”, un disco dove in ogni canzone si respira l’aria del movimento del 77. E siamo noi a far bella la luna/ con la nostra vita/ coperta di stracci e di sassi di vetro/ quella vita che gli altri ci respingono indietro/ come un insulto/ come un ragno nella stanza/ Ma riprendiamola in mano, riprendiamo intera/ riprendiamoci la vita/ la terra, la luna e l’abbondanza”.

ESiamo noi a far ricca la terra
noi che sopportiamo